Avevo promesso che avrei continuato l'articolo precedente. Bhè, la continuazione è questa. E' un'articolo dai toni ben più seriosi del solito... ma non noioso, o almeno non credo...
Le pratiche
collaborative sviluppatesi su prevalentemente su internet nell'ultimo decennio
stanno entrando prepotentemente in molti ambiti dell'attività umana. La
produzione, l'uso e il riciclo dei beni sono radicalmente cambiati (e cambiano
e cambieranno inesorabilmente) e con essi è anche enormemente aumentato il
flusso a la quantità di informazioni cui ciascun individuo (o forse sarebbe
meglio dire “utente finale")
può accedere.
L'ambiente costruito
non è immune a questi cambiamenti. Esempi come Milano per scelta
(la piattaforma digitale sviluppata da Urban Center Milano e Interaction Design
Lab per la redazione del Piano di Governo del Territorio della città di Milano)
o Noi L’Aquila
(progetto di conservazione della memoria storica del capoluogo abruzzese post
sisma 2009 ideato dall'architetto Barnaby Gunning e attualmente supportato da
UnivAQ e Google) rappresentano bene non solo l'interazione tra tecnologie
digitali e ambiente costruito, ma anche la straordinaria capacità inclusiva e
partecipativa che le pratiche sviluppatesi in rete mettono in atto.
Open Source Architecture: che cosè?
Anche architettura e
urbanistica non sono immuni al fascino e alla potenza della rete. La
presentazione del progetto Opensimsim
alla XII Mostra Internazionale di Architettura di Venezia nel 2010 (e il
successivo worksprint di giugno 2011 denominato OpenJapan), il concorso OpenSource House
del 2010 e l’attività dell’Open Architecture Network
sono state le prime avvisaglie di un dibattito che stava nascendo (Small Scale,Big Changes,
mostra tenutasi al MOMA nel 2011, è forse il primo momento di sintesi sugli
effetti della rete sulla pratica architettonica).
L'editoriale introduttivo
apparso sul numero 948 di Domus sembra essere il primo tentativo di individuare
e descrivere il nascente fenomeno. Utilizzando la definizione di Open Source
Architecture (OSArc) il gruppo di autori ci introduce all'interno del nuovo
fenomeno prodotto dal binomio internet/architettura, stilandone una definizione
e individuando sei principali ambiti di azione[1].
Questa sorta di “manifesto per un'architettura del nuovo millennio” (sempre che
riesca ad essere attuale ed esaustivo per un intero millennio) tenta di riunire
svariati fenomeni e tendenze architettoniche ed urbane sotto la sigla OSArc.
Ma se dal punto di
vista comunicativo il nome scelto appare più che soddisfacente (ed anche
piuttosto affascinante) dal punto di vista “scientifico” la situazione è
tutt'altro che chiara. L’open source è una pratica di sviluppo - principalmente
legata allo sviluppo del software, ma non solo - che ha un funzionamento
preciso e rodato (l’open source è anche un business). La definizione di OSArc
ha poco a che fare con le pratiche propriamente Open Source, è probabilmente
una definizione sbagliata, ma ha il vantaggio di comunicare chiaramente che con
molta probabilità si inseriranno (già si inseriscono) all'interno del processo
edilizio pratiche nuove (e non solo, anche nuovi attori sociali, nuovi
stakeholder etc..) con cui il progettista dovrà necessariamente fare i conti.
Sarebbe dunque più
corretto parlare di architettura nell'era digitale[2]
e magari riferirsi all’Open Source Architecture quando (e se) abbiamo
intenzione di trasferire un metodo di sviluppo che ha già dato prova della sua
efficacia in altri ambiti all'interno del processo edilizio.
Ma l’architettura open
source è necessaria?
“La straordinaria portata della rivoluzione informatica deve potersi
espletare anche nello spazio reale, ma è necessario che ciò avvenga sviluppando
nuove e intelligenti forme di collaborazione, capaci di rendere l’interazione
un valore aggiuntivo e non sostitutivo.”
Ad oggi più della metà
degli abitanti della terra vive nelle città e gran parte delle abitazioni del
mondo non sono state progettate o costruite da architetti o da altri
professionisti del settore (si stima che il 37% della popolazione urbana del
pianeta viva in condizioni altamente disagiate, si parla dunque di circa un
miliardo e trecentomila persone). Ci troviamo di fronte a una richiesta enorme
cui è necessario far fronte sviluppando soluzioni economiche, innovative e
sostenibili.
Dagli indignados spagnoli alle rivolte arabe
fino al recente referendum svoltosi in Italia si è manifestato un rinnovato
impegno civile e una radicale critica al sistema attuale, il tutto trainato
dalla massiccia diffusione di internet e del web 2.0. I dati riguardo alla
diffusione di internet sono contraddittori, ma i segnali attuali spingono a
credere che internet sarà sempre più diffuso, anche nei paesi del cosiddetto
terzo mondo.
L’epigrafe di De
Matteis invita a sviluppare nuove e intelligenti forme di collaborazione, ma
forse ancora più intelligente è sfruttare quelle che già sono presenti in altri
ambiti della produzione e trasportarle all’interno della nostra disciplina,
adattandole ai nostri scopi.
Open source e
architettura
Ripartire dal
significato stesso delle parole open source non può che essere d’aiuto: open, ovvero aperto, disponibile a tutti
e source, sorgente, per quanto
riguarda il software si intende il codice sorgente, da cui scaturisce il
programma eseguibile. Se lo scopo dell’Open Source Architecture è quello di
aprirsi (a nuovi soggetti, a nuove professionalità, a soggetti che prima erano
esclusi dal processo progettuale etc..) è necessario però stabilire a monte la
sorgente, che nel caso dell’architettura può essere molteplice. È possibile
infatti aprire differenti fasi del progetto, dal finanziamento fino all’uso che
viene fatto di un edificio, includendo quindi utenti con interessi e esperienze
anche molto differenti. Esempi come il crowdfunding
o l’incremental housing
illustrano bene come sia possibile aprire
due differenti fasi del processo edilizio (il finanziamento e l’uso). Ma la
vera difficoltà si manifesta nel momento in cui si decide di aprire una
sorgente progettuale, ovvero nel momento in cui si decide che non sarà più
solamente il progettista a gestire il processo progettuale ma a quest’ultimo si
potranno aggiungere molti altri soggetti (professionisti, appassionati, utenti
finali, potenziali utenti finali e molti altri ancora) e soprattutto la
difficoltà si presenta nel momento in cui si vuole creare un’entità progettuale
che possa essere continuamente ripresa, trasformata, arricchita e adattata ai
propri scopi da chiunque ne abbia necessità. Si tratta dunque di stabilire un
modello di sviluppo progettuale di tipo collaborativo che abbia come obbiettivo
la produzione di una identità progettuale continuamente disponibile, implementabile
e utilizzabile, cioè che si possa tradurre in qualcosa di reale[3].
Gli esperimenti di
questi genere non molti, uno di questi potrebbe essere il workshop OpenJapan,
organizzato dal gruppo Opensimsim, che ha tentato di strutturare un processo
creativo di tipo collaborativo utilizzando una piattaforma di scambio online.
Dal workshop, che non è riuscito pienamente a produrre i risultati attesi, si
sono potuti estrapolare alcuni punti di cui bisognerà tener conto nel momento in cui si vorrà
strutturare un modello di sviluppo progettuale di tipo collaborativo.
Elencandoli
brevemente: l’oggetto del processo (espresso in modo chiaro e semplice, una
sorta di programma[4]),
il funzionamento e gli strumenti del processo (regole e strumenti che devono
garantire la necessaria apertura),
gli attori (quali e quanti, che linguaggio usa ciascun attore, come si
rapportano gli attori tra di loro) e gli obbiettivi finali (un processo
innescato per scopi didattici sarà diverso da uno proposto per scopi umanitari,
etc…)
Per quanto riguarda il
funzionamento alcuni elementi interessanti ci possono essere suggeriti da modelli
collaborativi che già esistono (pensiamo all’Open Space Technology)
favoriti dalla comunicazione attraverso la rete (che permette di trasferire
grandi quantità di informazioni - e quindi conoscenza - in breve tempo e
superando grandi distanze). La costituzione di standard comuni (ad esempio Openstructures)
faciliterà la collaborazione collettiva attraverso le reti e permetterà una
trasmissione di dati più snella mentre la prototipazione rapida (Fablab
e RepRap)
faciliterà l’autocostruzione e metterà la maggior parte degli utenti nelle
condizioni di realizzare da sè i necessari elementi costruttivi.
Architettura open
source some utopia realizzabile
Parafrasando Yona
Friedman[5],
sembra che le sua teoria assiomatica circa le utopie realizzabili sia
soddisfatta:
1 le utopie nascono da un'insoddisfazione collettiva (vogliamo
pensare che un miliardo e trecentomila persone che vivono in condizioni di vita
siano insoddisfatte);
2 le utopie possono nascere solo se esiste un rimedio noto (una
tecnica o un diverso comportamento), suscettibile di por fine a tale
insoddisfazione (l’architettura open source potrebbe svolgere il ruolo di diverso
comportamento o approccio al progetto);
3 un’utopia può diventare realizzabile solo se ottiene un consenso
collettivo (in questo caso la rete darà il suo responso).
La realizzazione di
tale utopia dipenderà molto dalla ricerca che verrà fatta su di essa, ma molto
anche dipenderà dal ruolo che gli architetti decideranno di avere in futuro, se
quello di architetto-demiurgo che ha caratterizzato il secolo scorso e sembra
caratterizzare a anche quello corrente o se invece preferiranno ricoprire ruoli
meno archistar-oriented ma più
impegnati (e forse impegnativi): quasi un ruolo di facilitatore in un processo
di trasformazione e evoluzione dell’ambiente costruito quasi non-autocosciente[6].
[1] “L'architettura open source rivoluziona ogni
fase del processo edilizio tradizionale, dalla preparazione delle direttive di
progetto alla demolizione e dalla programmazione al recupero e riuso,
includendo i seguenti elementi: finanziamento, partecipazione, standard,
progettazione, costruzione e uso.”
[2] Antoine Picon, Digital culture in
architecture : an introduction for the design professions, Birkhäuser 2010,
[3] “L'utopia è necessariamente il risultato
di un'invenzione collettiva, perché è destinata a subire trasformazioni
continue, e di miniapporti individuali…” Yona Friedman, Utopie Realizzabili, Quodlibet 2003,
pag.23
[4]
Christopher Alexander, Note sulla sintesi
della forma, Il saggiatore 1967, parte seconda
[5]
Yona Friedman, cit, pag. 20
[6]
Christopher Alexander, cit., Il
saggiatore 1967, parte prima
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