martedì 20 settembre 2011

OSArc?


Avevo promesso che avrei continuato l'articolo precedente. Bhè, la continuazione è questa. E' un'articolo dai toni ben più seriosi del solito... ma non noioso, o almeno non credo...

Le pratiche collaborative sviluppatesi su prevalentemente su internet nell'ultimo decennio stanno entrando prepotentemente in molti ambiti dell'attività umana. La produzione, l'uso e il riciclo dei beni sono radicalmente cambiati (e cambiano e cambieranno inesorabilmente) e con essi è anche enormemente aumentato il flusso a la quantità di informazioni cui ciascun individuo (o forse sarebbe meglio dire “utente finale") può accedere.
L'ambiente costruito non è immune a questi cambiamenti. Esempi come Milano per scelta (la piattaforma digitale sviluppata da Urban Center Milano e Interaction Design Lab per la redazione del Piano di Governo del Territorio della città di Milano) o Noi L’Aquila (progetto di conservazione della memoria storica del capoluogo abruzzese post sisma 2009 ideato dall'architetto Barnaby Gunning e attualmente supportato da UnivAQ e Google) rappresentano bene non solo l'interazione tra tecnologie digitali e ambiente costruito, ma anche la straordinaria capacità inclusiva e partecipativa che le pratiche sviluppatesi in rete mettono in atto.
  
Open Source Architecture: che cosè?

Anche architettura e urbanistica non sono immuni al fascino e alla potenza della rete. La presentazione del progetto Opensimsim alla XII Mostra Internazionale di Architettura di Venezia nel 2010 (e il successivo worksprint di giugno 2011 denominato OpenJapan), il concorso OpenSource House del 2010 e l’attività dell’Open Architecture Network sono state le prime avvisaglie di un dibattito che stava nascendo (Small Scale,Big Changes, mostra tenutasi al MOMA nel 2011, è forse il primo momento di sintesi sugli effetti della rete sulla pratica architettonica).
L'editoriale introduttivo apparso sul numero 948 di Domus sembra essere il primo tentativo di individuare e descrivere il nascente fenomeno. Utilizzando la definizione di Open Source Architecture (OSArc) il gruppo di autori ci introduce all'interno del nuovo fenomeno prodotto dal binomio internet/architettura, stilandone una definizione e individuando sei principali ambiti di azione[1]. Questa sorta di “manifesto per un'architettura del nuovo millennio” (sempre che riesca ad essere attuale ed esaustivo per un intero millennio) tenta di riunire svariati fenomeni e tendenze architettoniche ed urbane sotto la sigla OSArc.
Ma se dal punto di vista comunicativo il nome scelto appare più che soddisfacente (ed anche piuttosto affascinante) dal punto di vista “scientifico” la situazione è tutt'altro che chiara. L’open source è una pratica di sviluppo - principalmente legata allo sviluppo del software, ma non solo - che ha un funzionamento preciso e rodato (l’open source è anche un business). La definizione di OSArc ha poco a che fare con le pratiche propriamente Open Source, è probabilmente una definizione sbagliata, ma ha il vantaggio di comunicare chiaramente che con molta probabilità si inseriranno (già si inseriscono) all'interno del processo edilizio pratiche nuove (e non solo, anche nuovi attori sociali, nuovi stakeholder etc..) con cui il progettista dovrà necessariamente fare i conti.
Sarebbe dunque più corretto parlare di architettura nell'era digitale[2] e magari riferirsi all’Open Source Architecture quando (e se) abbiamo intenzione di trasferire un metodo di sviluppo che ha già dato prova della sua efficacia in altri ambiti all'interno del processo edilizio.

Ma l’architettura open source è necessaria?

“La straordinaria portata della rivoluzione informatica deve potersi espletare anche nello spazio reale, ma è necessario che ciò avvenga sviluppando nuove e intelligenti forme di collaborazione, capaci di rendere l’interazione un valore aggiuntivo e non sostitutivo.”



Ad oggi più della metà degli abitanti della terra vive nelle città e gran parte delle abitazioni del mondo non sono state progettate o costruite da architetti o da altri professionisti del settore (si stima che il 37% della popolazione urbana del pianeta viva in condizioni altamente disagiate, si parla dunque di circa un miliardo e trecentomila persone). Ci troviamo di fronte a una richiesta enorme cui è necessario far fronte sviluppando soluzioni economiche, innovative e sostenibili.
Dagli indignados spagnoli alle rivolte arabe fino al recente referendum svoltosi in Italia si è manifestato un rinnovato impegno civile e una radicale critica al sistema attuale, il tutto trainato dalla massiccia diffusione di internet e del web 2.0. I dati riguardo alla diffusione di internet sono contraddittori, ma i segnali attuali spingono a credere che internet sarà sempre più diffuso, anche nei paesi del cosiddetto terzo mondo.
L’epigrafe di De Matteis invita a sviluppare nuove e intelligenti forme di collaborazione, ma forse ancora più intelligente è sfruttare quelle che già sono presenti in altri ambiti della produzione e trasportarle all’interno della nostra disciplina, adattandole ai nostri scopi.

Open source e architettura

Ripartire dal significato stesso delle parole open source non può che essere d’aiuto: open, ovvero aperto, disponibile a tutti e source, sorgente, per quanto riguarda il software si intende il codice sorgente, da cui scaturisce il programma eseguibile. Se lo scopo dell’Open Source Architecture è quello di aprirsi (a nuovi soggetti, a nuove professionalità, a soggetti che prima erano esclusi dal processo progettuale etc..) è necessario però stabilire a monte la sorgente, che nel caso dell’architettura può essere molteplice. È possibile infatti aprire differenti fasi del progetto, dal finanziamento fino all’uso che viene fatto di un edificio, includendo quindi utenti con interessi e esperienze anche molto differenti. Esempi come il crowdfunding o l’incremental housing illustrano bene come sia possibile aprire due differenti fasi del processo edilizio (il finanziamento e l’uso). Ma la vera difficoltà si manifesta nel momento in cui si decide di aprire una sorgente progettuale, ovvero nel momento in cui si decide che non sarà più solamente il progettista a gestire il processo progettuale ma a quest’ultimo si potranno aggiungere molti altri soggetti (professionisti, appassionati, utenti finali, potenziali utenti finali e molti altri ancora) e soprattutto la difficoltà si presenta nel momento in cui si vuole creare un’entità progettuale che possa essere continuamente ripresa, trasformata, arricchita e adattata ai propri scopi da chiunque ne abbia necessità. Si tratta dunque di stabilire un modello di sviluppo progettuale di tipo collaborativo che abbia come obbiettivo la produzione di una identità progettuale continuamente disponibile, implementabile e utilizzabile, cioè che si possa tradurre in qualcosa di reale[3].
Gli esperimenti di questi genere non molti, uno di questi potrebbe essere il workshop OpenJapan, organizzato dal gruppo Opensimsim, che ha tentato di strutturare un processo creativo di tipo collaborativo utilizzando una piattaforma di scambio online. Dal workshop, che non è riuscito pienamente a produrre i risultati attesi, si sono potuti estrapolare alcuni punti di cui bisognerà  tener conto nel momento in cui si vorrà strutturare un modello di sviluppo progettuale di tipo collaborativo.
Elencandoli brevemente: l’oggetto del processo (espresso in modo chiaro e semplice, una sorta di programma[4]), il funzionamento e gli strumenti del processo (regole e strumenti che devono garantire la necessaria apertura), gli attori (quali e quanti, che linguaggio usa ciascun attore, come si rapportano gli attori tra di loro) e gli obbiettivi finali (un processo innescato per scopi didattici sarà diverso da uno proposto per scopi umanitari, etc…)
Per quanto riguarda il funzionamento alcuni elementi interessanti ci possono essere suggeriti da modelli collaborativi che già esistono (pensiamo all’Open Space Technology) favoriti dalla comunicazione attraverso la rete (che permette di trasferire grandi quantità di informazioni - e quindi conoscenza - in breve tempo e superando grandi distanze). La costituzione di standard comuni (ad esempio Openstructures) faciliterà la collaborazione collettiva attraverso le reti e permetterà una trasmissione di dati più snella mentre la prototipazione rapida (Fablab e RepRap) faciliterà l’autocostruzione e metterà la maggior parte degli utenti nelle condizioni di realizzare da sè i necessari elementi costruttivi.
 

Architettura open source some utopia realizzabile

Parafrasando Yona Friedman[5], sembra che le sua teoria assiomatica circa le utopie realizzabili sia soddisfatta:
1 le utopie nascono da un'insoddisfazione collettiva (vogliamo pensare che un miliardo e trecentomila persone che vivono in condizioni di vita siano insoddisfatte);
2 le utopie possono nascere solo se esiste un rimedio noto (una tecnica o un diverso comportamento), suscettibile di por fine a tale insoddisfazione (l’architettura open source potrebbe svolgere il ruolo di diverso comportamento o approccio al progetto);
3 un’utopia può diventare realizzabile solo se ottiene un consenso collettivo (in questo caso la rete darà il suo responso).
La realizzazione di tale utopia dipenderà molto dalla ricerca che verrà fatta su di essa, ma molto anche dipenderà dal ruolo che gli architetti decideranno di avere in futuro, se quello di architetto-demiurgo che ha caratterizzato il secolo scorso e sembra caratterizzare a anche quello corrente o se invece preferiranno ricoprire ruoli meno archistar-oriented ma più impegnati (e forse impegnativi): quasi un ruolo di facilitatore in un processo di trasformazione e evoluzione dell’ambiente costruito quasi non-autocosciente[6].


[1] “L'architettura open source rivoluziona ogni fase del processo edilizio tradizionale, dalla preparazione delle direttive di progetto alla demolizione e dalla programmazione al recupero e riuso, includendo i seguenti elementi: finanziamento, partecipazione, standard, progettazione, costruzione e uso.”
[2] Antoine Picon, Digital culture in architecture : an introduction for the design professions, Birkhäuser 2010,
[3] L'utopia è necessariamente il risultato di un'invenzione collettiva, perché è destinata a subire trasformazioni continue, e di miniapporti individuali…” Yona Friedman, Utopie Realizzabili, Quodlibet 2003, pag.23
[4] Christopher Alexander, Note sulla sintesi della forma, Il saggiatore 1967, parte seconda
[5] Yona Friedman, cit, pag. 20
[6] Christopher Alexander, cit., Il saggiatore 1967, parte prima

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